BARCHETI
Superata l’ampia salita ai Cappuccini, e magari riposato il corpo e lo spirito nell’accogliente, fresca, e silenziosa chiesa francescana, il visitatore si trova dinanzi una ripida mulattiera, che porta alla scoscesa, ma ridente, zona dei Barcheti.
Qui, tra ulivi e vigne, accanto alle consuete case agricole erano sorte, già in passato, piccole case “di campagna” di cittadini pievesi, attratti dalla bella esposizione, e dalla quieta presenza del vicino Bosco dei Frati.
Nei Barcheti, e nello stesso Bosco conventuale, crescevano i (probabilmente unici) eucalipti dell’area pievese, dialettalmente chiamati con un nome curioso: “bibiribì”.
Altre piante dal nome curioso crescono in zona: ad esempio quella dell'”olio di S.Giovanni”, un arbusto che produce grosse galle piene di liquido oleoso, considerato miracoloso a rimarginar le ferite, il “murtarése”, noto per le sue proprietà ipnotiche sugli animali (che appunto cadono ubriachi, come morti), il “tarbüsciu”, cioè il corbezzolo, ecc.
COLLARETO
In dialetto locale “Collaréu”, significa, in modo piuttosto trasparente, Colle dell’ariete.
Il sito fronteggia Acquetico, sul fianco del ripido versante che sale verso gli alti pascoli del monte Paròdo, ma non è in ombra, in quanto costituito da un poggio elevato e ben esposto, su cui sorge il piccolo santuario detto appunto della Madonna di Collareto.
Dal santuario, oggetto di una devota sagra annuale, si gode un’ottima visuale sia verso l’alta che verso la bassa Valle, ed il suo accesso offre un rilassante percorso fra i boschi
COLLE DOMENICA
E’ detta anche Madonna del cinque d’Agosto, poichè in quel giorno vi si celebrava una affollata festa religiosa, che poi si trasformava in allegra scampagnata
Era tradizione che i cacciatori portassero il proprio fucile, cosicché, oltre ai canti, ai pranzi al sacco e alle bevute, c’erano anche improvvisate e fragorose gare di tiro a volo contro le “scatolette” vuote, o anche semplici sassi, lanciati in aria a braccio.
La gita a Colla Domenica (come anche quella a San Cosimo) era una tradizione pressoché obbligata per i pievesi, fino a tempi abbastanza recenti.
La chiesetta, con il suo doppio portico di rifugio in caso di maltempo, risponde a una tipologia di chiese di montagna piuttosto frequente in zona, si vedano ad esempio quella di S. Antonino, e quella dei santi Cosimo e Damiano (appunto il San Cosimo sopra citato) tutte dotate di portico-rifugio, semplice o multiplo.
MADONNA DI CAMILLO
Già in area propriamente pievese, sorge sul crinale che separa la valle dell’Arroscia da quella della Giàira di Rèzzo, a fianco dell’antica strada mulattiera che,attraverso il ponte di S. Filomena, collegava Pieve di Teco con la Valle di Rèzzo.
La chiesetta, dotata del consueto loggiato a riparo dei viandanti, di piccola sacrestia e dei locali abitativi del sacerdote che la officiava (il cui nome era appunto Camillo) porta una piccola lapide con il nome del costruttore, Emanello (Emanuele) Pignone, datata 1828.
E difficile dire se quella data, piuttosto contraddittoria con l’aspetto ingenuamente baroccheggiante dell’interno, corrisponda alla costruzione della chiese, o, ad esempio, del solo loggiato, o a qualche restauro.
Il loggiato conserva sulla parete di fondo un Crocifisso affrescato con ottima mano, che varrebbe forse la pena di staccare e trasportare in adatta sede.
La chiesetta, che era in passato oggetto di una piccola sagra annuale semi-famigliare, è oggi in completo abbandono, e parte degli edifici abitativi, con i tetti ormai crollati, sono in stato di avanzata rovina.
In rovina, ma già da tempi assai più antichi, è la chiesa di S. Andrea, i cui ruderi si trovano lungo la mulattiera che sale alla Madonna di Camillo. Lungo la mulattiera, ancora in ottimo stato e parzialmente utilizzata, è particolarmente abbondante la fioritura di timo, ingrediente importante della cucina locale.
SANTA FILOMENA
L’antico ponte a schiena d’asino verosimilmente esisteva già prima dell’edificazione di Pieve di Teco, sulla primitiva strada che congiungeva il Borgo Vecchio (primo nucleo preesistente del paese) con la valle di Rèzzo, con quella di Imperia, e, attraverso Muzio, con quella di Albenga ed il mare.
A monte del Borgo Vecchio questa strada, tuttora esistente con il nome di strada dei Piani di S. Pietro, si dirigeva verso Acquetico ed il Piemonte. I vecchi pievesi, evidentemente equivocando con “romanico”, lo chiamavano “ponte romano”.
Un tratto dell’antica strada ad esso pertinente esiste tuttora, ed è costituita dalla rampa che scende nelle Giàire Larghe, le attraversa, passa sul ponte, e, toccato il Mulino del Longo, raggiunge la vecchia fontana di Gadè.
Il mulino del Longo, probabilmente cinquecentesco, è stato in funzione fino a non troppi decenni orsono, e conserva tuttora la propria attrezzatura di molitura, ed anche quella di un frantoio per olive.
Vicino al ponte era il luogo delle esecuzioni capitali, praticate fino a circa metà Ottocento. Ad esorcizzare quel triste luogo, e forse anche per impartire ai condannati gli ultimi conforti, accanto è stata costruita la chiesetta di S. Filomena, con una ottocentesca tela del Massabò.
Il complesso del ponte, dell’antico mulino, della chiesetta, e dell’ampia ansa dell’Arroscia, costituisce un insieme paesaggistico di grande suggestione.
TECO
Prima di entrare nel capoluogo, si entra nel piccolissimo insediamento di Teco, che a Pieve ha dato il nome.
Si tratta di poche case, alcune ancora abitate, molte in rovina, sorgenti in alto, in splendido sole e splendida vista. Nulla più, oggi, di un microscopico insediamento agricolo.
Ha tuttavia la sua piccola chiesa, puntualmente restaurata, che conserva una interessante pala d’altare, un piccolo polittico, datato a metà del ‘600 (quindi un probabile ex-voto per l’assedio del 1625) ma con caratteristiche più arcaiche: sostanzialmente la matrice culturale di questi polittici dorati è ancora tardo-gotica. Appare oggi rilevante il problema della messa in sicurezza del piccolo dipinto.
In vetta al monte esistono residui ruderi del primitivo castello del 1125, dei marchesi di Clavesana, signori del luogo.
LA MADONNA DEI FANGHI
La deliziosa chiesa campestre color bianco-rosa sorge a circa 6 Km. da Pieve, lungo la strada per Armo-Moano.
Essa ebbe origine nella prima metà del XVII sec. sotto forma di pilone, verosimilmente come ex-voto connesso al tremendo assedio ed espugnazione di Pieve di Teco del 1625
Accanto ad essa passava la vecchia strada per Armo e Moano, un tratto della quale, a valle del santuario, è tuttora leggibile e percorribile.
Lungo questa strada, verso monte, sorgeva anche un antico mulino mosso da una grande ruota ad acqua in legno, evidentemente molto importante all’epoca, tanto da dare il proprio nome, tuttora usato, all’intera zona: “murìn de Mòeua” (mulino di Moano).
Essere ai “mulini di Moano” (termine usato prevalentemente al plurale) significava, e significa tuttora, trovarsi circa a metà strada fra Pieve e Moano.
Al di sotto del santuario, e ben visibile dalla passerella che (sostituendo l’antico ponte crollato) attraversa il torrente, l’Arrogna forma un piccolo, ma suggestivo orrido.
Il santuario è sempre stato (ed è tuttora) amatissimo dei pievesi, e quanto grande sia stata la loro gratitudine è mostrato dal fatto che l’intero piazzale erboso della chiesa, compresi i suoi alberi ornamentali, è sorretto da un’unica volta appositamente costruita (forse inglobando il ponte sulla vecchia strada) sotto cui passa il torrentello di Trovasta.
La passeggiata verso la Madonna dei Fanghi, percorrendo la comoda e piana via dei Platani, passando per la venerata edicola della Croce, e respirando la quieta aria dei piani di S. Bernardino, è quanto di più distensivo si possa immagina